giovedì 26 novembre 2020

Un Natale da montare

Non voglio entrare nel merito se sia giusto o no addobbare casa per Natale o fare l’albero prima dell’8 dicembre. Ognuno è libero di fare come meglio crede e come vuole in casa propria. Sinceramente, da quando sono sposato, queste cose le faccio la Prima Domenica d’Avvento. La tradizione dice che dovrei farlo l’8 dicembre? Sapete come vi risponderebbe il grande capo indiano di 610? Non lo sapete? Fate una ricerca e capirete. 

Tuttavia, quest’anno la polemica si è alimentata di altro. Leggo sui vari social, infatti, che molti trovano assurde le festività natalizie in questo tempo di pandemia, che non vale la pena festeggiare, che, con questa situazione che ci ritroviamo a causa del COVID-19 non è corretto fare festa, addobbare le case, con lucine, soprammobili, alberi e presepi. Hanno ragione? Sarebbe davvero un torto ai malati o ai morti di quest’anno? Credo proprio di no. Dipende da cosa cerchiamo nel Natale. Quest’anno non potremo avere le case piene di persone, è vero. Alcuni non potranno avere accanto le persone a cui vogliono bene; molti passeranno il Natale in un ospedale (anche se, in verità, ogni anno c’è qualcuno che non potrà festeggiare con i propri cari a causa di un ricovero). Lo so bene che è difficile. Negli anni ci sono passato pure io per questo dolore, perciò non posso giudicare chi preferisce astenersi dalle festività. Tuttavia, Cristo si è fatto carne per tutti, anche per abbracciarci nelle nostre sofferenze.

Sarà, quindi, un Natale diverso nella forma ma non nella sostanza. Un Natale in cui saremo chiamati a montarlo con i pezzi della nostra vita, quelli gioiosi e quelli dolorosi. Ognuno sarà chiamato a mettere un pezzetto della propria vita nel presepe. Saremo i pastori che portano in dono quello che hanno a Gesù che nasce perché è proprio quel Verbum caro Factum est che dovrebbe indicarci la giusta via, dovrebbe ricordarci che la salvezza è già scesa sulla Terra. Noi che resistiamo siamo chiamati a vivere l’attimo presente nel pieno delle nostre forze e con le persone che amiamo. Anche a distanza. Dobbiamo fare in modo di essere noi la decorazione più bella.

Ora scusatemi ma devo iniziare a montare il mio Natale.


 

lunedì 23 novembre 2020

Quarant’anni dopo

Sono nato nell’ottobre del 1982 e, ovviamente, non posso ricordare l’evento del terremoto dell’Irpinia del 1980 di cui oggi ne ricorre il quarantennale. Un sisma che ha cambiato la vita di molti.

Non sono un testimone di quello che accadde, dei morti e degli sfollati che ci furono ma posso essere testimone degli effetti che, dopo quarant’anni, si fanno ancora sentire (anche a causa di una classe politica inetta).

Sono testimone di persone che per anni hanno aspettato un’abitazione che, spesso, non è mai arrivata. Sono testimone del conseguente scempio edilizio dei casermoni popolari che hanno sradicato le persone dai loro territori, paesi e quartieri per costringerli a costruirsi una nuova identità, a costringerli a vivere senza servizi e senza assistenza. Sono testimone che a quella ricostruzione edilizia non fu affiancata quella delle persone, della loro dignità.

Sono testimone del terrore che il terremoto dell’80 ha lasciato nelle persone. Ricordo il volto terrorizzato di mia madre ogni qual volta il lampadario del salone tintinnava per un terremoto. Solo da adulto ho potuto capire il motivo di quel viso spaurito ogni santissima volta ci fosse una scossa. Oggi capisco perché mia zia, ogni volta che c’è una scossa nel Centro Italia, mi chiama subito per sapere come sto.

Sono testimone della forza del popolo campano, non ha mai mollato. Ha continuato a vivere (e a sopravvivere) con la famosa arte dell’arrangiarsi, non perdendosi d’animo, rimbeccandosi le maniche e ad andare avanti consapevoli che la ricostruzione inizia dalla volontà delle persone. Perché quel “Fate presto!” risuona ancora forte nelle nostre orecchie e, qualcuno, aspetta ancora che arrivi un aiuto. Dopo quarant’anni.

sabato 14 novembre 2020

Attimo presente pandemico

La pandemia e l’attimo presente, un pensiero fisso in questi giorni in cui le nostre vite, purtroppo, sono legate a dei colori: giallo, arancione e rosso. Alle nostre incertezze legate al momento storico che stiamo vivendo, si aggiunge la spada di Damocle rappresentata dalla paura di passare da una tinta all’altra, con l’incertezza di sapere quando accade. Una sera ti addormenti che la tua regione è gialla e la mattina dopo ti ritrovi con un colore più scuro che influenza (fino a quando non si sa) la tua vita. Certo, ci dicono che i parametri sono scientifici e questo non lo metto in dubbio. 

La cosa che critico è la modalità della comunicazione. Sapere in quale giorno della settimana potrebbe esserci il decreto del ministro della Salute che indica le regioni a cambiare colore, agevolerebbe chi, come me, per esempio, vive questo periodo con una certa ansia (non sono l’unico a quanto pare).

Tuttavia, c’è del positivo, per me, in tutta questa situazione. Sento ancora più forte il richiamo a vivere l’attimo presente, di non aggrapparmi alle mie ansie (almeno ci provo). Tra preoccuparmi di un futuro incerto e aggrapparmi ad un passato più roseo, sento forte l’invito a cogliere le cose che Dio vuole donarmi nel “qui ed ora” e ringraziarLo per ciò che in questo anno funesto non mi manca: un lavoro, la salute e l’amore di chi mi è accanto.

martedì 10 novembre 2020

Disonestà pandemica

Non capisco cosa volete dimostrare voi che fate i tour fuori gli ospedali e ai Pronto Soccorso in questi giorni. Volete mostrare che il COVID non esiste? Che non c’è una vera emergenza? Trovo tutto ciò disonesto.

Non esiste il COVID? Purtroppo la conta delle persone che si infettano e si ammalano cresce sempre più. Non parlo solo di ciò che raccontano i media ma di quello che vedo con i miei occhi, di persone che conosco e di giovani che si stanno ammalando anche in maniera grave.

Dite che non esiste emergenza? Raccontatelo alle famiglie delle 580 persone che oggi, martedì 10 novembre, sono morte. Disonesti! Siete solo disonesti! Accusate i media di non raccontare la verità ma voi, dall’alto dei vostri piedistalli, fate un gioco anche peggiore. Vi affidate a ciarlatani diventando come loro.  Vi affidate ad immagini dell’esterno degli ospedali quando è dentro di essi che medici e infermieri (ai quali dovremmo un solo grazie) combattono anche per noi contro questo virus.

Dite che nei vostri tour vedete poca gente che affolla gli ingressi degli ospedali, come se i malati di COVID abbiano lo stesso accesso degli altri. Quindi, secondo questa vostra malsana teoria, anche le altre malattie non esistono? Fino a prova contraria negli ospedali si va per tanti motivi.

Io vi conosco bene e ammetto che vorrei avere la vostra stessa sicurezza ma, purtroppo, non ce l’ho. Perché a differenza vostra io spero sempre di avere torto; che qualcuno riesca a mostrarmi, in maniera logica e scientifica, dove sta l’errore del mio pensiero. Purtroppo i vostri ragionamenti sono come l’evangelica casa costruita sulla sabbia.

sabato 7 novembre 2020

Vita riservata. Saluto a Stefano D’Orazio

Lo so, questo spazio sta rischiando di diventare un elogio funebre quotidiano ma ci sono personaggi che ci stanno lasciando è che hanno fatto parte della mia storia. Stefano D’Orazio (ma i Pooh in generale) è uno di questi. 

I miei amici dell’adolescenza possono testimoniare quanto, influenzato da mia madre, ascoltassi i Pooh. Da lì, forse, è nata la diceria (non tanto falsa in verità) che io fossi “vecchio dentro”. Mentre gli altri ascoltavano Tiziano Ferro e altri cantanti che negli anni ‘90 esordivano, io cantavo i Pooh. Mentre iniziavano i primi discorsi su diritti degli omosessuali io ascoltavo “Pierre”, canzone troppo avanti per essere stata pubblicata nel 1976. Certo la mia passione per loro non è paragonabile a quella per Baglioni ma è stata pur sempre importante.

Dei Pooh, il componente che sempre mi ha colpito è stato proprio D’Orazio. Mi sembrava quello più silenzioso, discreto e riservato. Mi rendo conto, oggi, che così è stato. I suoi compagni di viaggio, i suoi “Amici per sempre” hanno scritto che da due settimane era ricoverato. La notizia, però era riservata. Non credo per vergogna. Non c’è nulla di vergognoso ad essere malati. Mi piace pensare che Stefano sia stato coerente con il suo essere anche nella difficoltà. In tempi in cui sembra non esserci un distacco netto tra pubblico e privato, il batterista dei Pooh ci ha insegnato che il nostro privato è un dono prezioso che dobbiamo custodire con amore e attenzione.

Grazie Stefano! Che la terra ti sia lieve!

lunedì 2 novembre 2020

A Dio maestro!

In genere trovo stucchevoli i post delle persone quando muore qualcuno di famoso, tutti si sentono in dovere di manifestare il proprio dispiacere. Tuttavia, mi rendo conto, ci sono dei personaggi a cui nessuno può sottrarsi a questa dinamica.

Gigi Proietti è uno di questi. Lo chiamano “maestro” e fanno bene perché è stato un personaggio che ha legato tre generazioni di italiani e quelle che verranno non sapranno cosa vuol dire ascoltare una sua barzelletta, vedere un suo film, sceneggiato, assistere ad un suo spettacolo teatrale o ascoltare un personaggio da lui doppiato e riconoscerne la voce. Provo tristezza per loro. 

Oggi l’Italia perde un pezzo importante della sua storia artistica e un po’ tutti dovremmo esserne tristi. Il cinico dice che “tutti devono morire”, e magari a dirlo sono quelli come me che hanno subito un lutto che dopo quasi vent’anni fa ancora male. È vero che in tanti muoiono nel silenzio (soprattutto in questo tempo di pandemia) ma non si può negare che alcune morti, anche di personaggi che non conosciamo direttamente, incidono sulla nostra vita in maniera dura e ruvida. Se non ci rendessimo conto di questo la giornata di oggi, 2 novembre, non avrebbe senso commemorarla.

Ciao maestro, ciao core!