martedì 2 aprile 2019

Creare Famiglia

36 anni, coniugato, vive e lavora a Roma. Un punto chiave per capire la sua vocazione per Giovanni Varuni è stato l’incontro con i missionari Oblati di Maria Immacolata. Giovanni ha infatti vissuto al Centro giovanile di Marino laziale (Roma), alcuni anni nel Movimento giovanile Costruire, per poi associarsi all’Associazione Missionaria Maria Immacolata. Attualmente lavora come educatore per la cooperativa L’Accoglienza che gestisce alcune case-famiglia a Roma.
Da più di sei anni lavori presso Casa Betania, una casa-famiglia che accoglie minori con diverse problematiche…
Ho iniziato a lavorare nella comunità di Casa Betania nel luglio del 2012. In questi anni il mio servizio (mi piace definirlo così) ha avuto tanti cambiamenti. Sono stato assunto per lavorare in case-famiglia che ospitano bambini e ragazzi con varie forme di disabilità anche gravi. Il lavoro in questa realtà va dall’assistenza pura alla persona al condividere la quotidianità con questi ragazzi. La “politica di gestione” delle case famiglie della comunità è quella di dare un ambiente all’ospite quanto più familiare possibile. Posso dire che il mio lavoro consiste anche nell’essere famiglia con i ragazzi delle case. All’inizio mi sembrava un lavoro molto duro. Ricordo che al primo colloquio dissi chiaramente che, non avendo mai lavorato con ragazzi disabili, non sapevo fino a quando avrei retto: avevo messo le mani avanti. A Casa Sull’Albero, questo il nome della struttura, sono andato avanti fino all’inizio del 2017, poi ho continuato, perché mi hanno chiesto di cambiare il mio servizio, spostandomi nella struttura “madre” dove ci sono i ragazzi che definiremmo normodotati, ma che comunque presentano problematiche. Qui il mio lavoro è cambiato del tutto: mentre a Casa Sull’Albero i tempi erano scanditi da pratiche sanitarie, cambi pannoloni, pasti e momenti di svago ora le giornate sono molto variabili. Le attività dei ragazzi sono tante e la logistica non è semplice: immaginate una famiglia con sette figli dove ognuno ha un’attività pomeridiana diversa. Ci sarebbe da impazzire! Fortunatamente la casa vede la presenza di una famiglia residente e il lavoro è molto più semplice perché organizzato bene e distribuito ancora meglio. Certo, gli imprevisti ci sono sempre, ma a quelli si trova sempre una soluzione.

Dalla laurea in sociologia al lavoro di educatore, da Napoli a Roma, come sei arrivato a questo lavoro?
Al lavoro di educatore ci sono arrivato per caso. Avevo iniziato il tirocinio universitario presso un consorzio di cooperative sociali e mi sarei dovuto occupare di un progetto di valutazione di alcune attività, in particolare di una cooperativa di Scampia. Il progetto, però, fu interrotto. Tuttavia, per completare le ore del tirocinio mi sono trovato a collaborare con alcuni progetti di recupero scolastico per i ragazzi. Fu così che la cooperativa mi fece partecipare ad alcuni corsi regionali per educatori e iniziò l’avventura nel mondo dell’educazione dei ragazzi. Da quel momento ho continuato gli studi ma la priorità diventò il lavoro. Poter stare accanto a ragazzi in difficoltà mi accendeva un fuoco dentro, avevo capito che quella era la strada che Dio aveva pensato per me. Successivamente, dopo aver lavorato per quattro anni in un’associazione napoletana che opera nei Quartieri Spagnoli (una zona molto popolare del centro), nel 2012 mi sono trasferito a Roma. Ero fidanzato già da qualche anno con Angelica, oggi mia moglie, ma lei viveva nella capitale ed io a Napoli: decisi, quindi, di cercare lavoro a Roma per potermi trasferire e concretizzare la volontà di Dio con il matrimonio. Tramite un’amica di un’amica ho mandato il mio curriculum a Casa Betania e la Provvidenza, poi, ha fatto il resto.
Il tuo è un lavoro di quelli che sono considerati socialmente rilevanti, per certi aspetti “più missionari” di altri, cosa pensi di questa affermazione?
Devo essere sincero: non credo che ci siano lavori più missionari di altri. Il primo compito del cristiano è annunciare Cristo Salvatore a chi non lo conosce, vivere questa salvezza conosciuta nella propria vita anche nel posto di lavoro. In che modo? Innanzitutto, facendo con onestà il proprio lavoro, prendendosi le proprie responsabilità dinanzi ai datori di lavoro, ai colleghi e alla collettività che, in qualche modo, ti permette di esercitare un’attività lavorativa. Questo può farlo ogni cristiano (anzi, deve farlo ogni cristiano) che esercita un qualsiasi tipo di lavoro. Il posto di lavoro, per un laico, deve essere una terra di missione. La differenza nel mio lavoro è che sto a contatto diretto con la povertà, quella che posso toccare con mano o vedere nello sguardo di chi ho di fronte; quella delle famiglie in difficoltà ma che, spesso, non perdono la fiducia in chi vuole aiutarle. Il mio lavoro è missionario quando, per esempio, abbraccio un minore in difficoltà, perché in quel momento vedo Gesù che piange in lui ma, contemporaneamente, quell’abbraccio è l’unico modo per far sentire Gesù vicino a chi soffre.
Quanto conta il tuo essere laico missionario e laico appartenente alla famiglia oblata nel tuo lavoro?
Il mio lavoro di educatore è combaciato con il ritorno dalla mia esperienza del Centro giovanile di Marino. In quell’anno, oltre all’aver scoperto la mia vocazione, ho capito con più forza che l’evangelizzazione dei poveri avrebbe potuto essere il mio stile di vita da laico cristiano. Sono fortunato perché il Signore mi ha fatto fare questo percorso e oggi posso dire che il mio essere laico oblato è parte integrante della mia vita quotidiana. È uno stile di vita diverso, non migliore di altri, ma che riesce a farmi vivere la povertà delle persone (in particolare dei minori) che incontro ogni giorno nel mio lavoro.
Per un primo tempo ti sei occupato di bambini disabili, ora ti occupi di bambini con diverse tipologie di svantaggio, tra cui i minori non accompagnati. Quali sono le differenze e le sfide?
Le differenze ci sono, per esempio per ciò che riguarda l’organizzazione della giornata che influisce sul tipo di interazione che si può avere. Con i ragazzi disabili la cura della persona nella sua interezza (tra cui la pulizia personale) scandisce la giornata: l’ora della scuola, della terapia, della doccia, dello stare insieme a giocare, fare i compiti (con chi può). Le interazioni, in questo caso sono abbastanza fisiche. Con l’altra tipologia di ragazzi l’interazione è meno fisica ma richiede, anche questa, tanta attenzione. Non nego che questa è la domanda più difficile a cui rispondere perché porto nel cuore tutti i minori che ho conosciuto e so che le difficoltà che incontrano, siano essi disabili, minori migranti non accompagnati o minori allontanati alle famiglie, sono frutto di quella che papa Francesco chiama “società dello scarto”. Per me, infatti, la sfida più grande è non fare sentire nessuno uno “scarto” ed è per questo motivo che più che le differenze mi piacerebbe evidenziare le sfide che hanno in comune queste differenti tipologie disvantaggio nel mio lavoro. La prima sfida è far sentire a chi è in difficoltà che la sua vita è degna di essere vissuta in ogni istante; che ci sono delle persone che si prendono cura di lui (o lei) che sia un ragazzo in carrozzina, immobile su un letto o che sia giunto in Italia su un barcone. Un’altra sfida è lalottacon le istituzioni. Quante volte mi è capitato di combattere negli uffici pubblici perché non si conosce una legge o perché queste non vengono applicate come si deve. Spesso, è scoraggiante perché se ci sono diritti da far rispettare questi, spesso, vengono messi in secondo piano rispetto agli interessi di un determinato ufficio pubblico.
Intervista di Mariasara Castaldo tratta da Missioni OMI, 4/2019

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