mercoledì 12 giugno 2013

Chiara è nata e non morirà mai più


La storia di una giovane donna, testimone autentica di vita cristiana. La regola dei “piccoli passi possibili”

Chiara Corbella aveva ventotto anni, era una donna, una moglie e una mamma. Era una ragazza della mia età, appartenente a questa generazione che soffre il problema della disoccupazione, del mettere su famiglia, della precarietà della vita in tutti i suoi aspetti. Eppure Chiara ha saputo rispondere a questa società ‘in crisi’ facendo della sua vita un progetto divino. Le persone che in questi mesi hanno seguito la sua storia e quella di Enrico Petrillo, suo marito, si sono commosse, arrabbiate, scandalizzate, convertite. Ma cosa può dire a noi cristiani questa ragazza di Roma che ha vissuto un’esistenza così felice ed è salita in cielo con una felicità ancora più grande?



Una storia che interroga

Chiara nasce il 9 gennaio 1984. Cresce frequentando la parrocchia e, durante un viaggio a Medjugorje, conosce Enrico, con il quale si fidanza. Pochi anni e, dopo aver fatto ad Assisi un cammino di formazione per fidanzati, Chiara ed Enrico si sposano nel settembre 2008. Ha ventiquattro anni Chiara. Pochissime ragazze ormai si sposano a quell’età, perché non si hanno certezze, perché ci si vuole godere la vita, perché non si è preparati ad abbracciare un progetto di vita ‘per sempre’. Lei ed Enrico, invece, si fidano di Dio e della Provvidenza e si lanciano in questa “volontà di Dio”.
Chiara rimane subito incinta di una bambina, ma già dalle prime ecografie alla bimba viene diagnosticata un’anencefalia: incompatibile con la vita, dicono i medici, morirà appena nata. Chiara ed Enrico accolgono la notizia e si rifiutano di abortire. Vogliono dare alla bambina la possibilità di vivere quanto Dio vorrà. Chiara porta avanti una gravidanza difficile fino al giorno in cui nasce Maria Grazia Letizia, che viene battezzata e sale al cielo dopo trenta minuti. Chiara racconta questa esperienza durante un incontro ad Assisi, una testimonianza che si può vedere e ascoltare in un video su Youtube, nella quale afferma quanta gioia loro abbiano sperimentato davanti a questo avvenimento.
Chiara ed Enrico non si rassegnano e pochi mesi dopo arriva un’altra gravidanza. Anche stavolta il bambino è incompatibile con la vita per alcune gravi malformazioni, di nuovo la gravidanza viene portata a termine e nasce Davide, che vive poco più della sorellina.
Arriva per Chiara anche la terza gravidanza. Il bambino è sano e nascerà senza problemi. Al quinto mese, però, a Chiara viene diagnosticato un tumore alla lingua. Provano ad intervenire, ma non funziona; c’è bisogno di cure più serie e specifiche. Chiara, però, rifiuta di farsi curare, perché metterebbe a rischio la vita di suo figlio. Il 30 maggio 2011 nasce Francesco e subito iniziano le cure contro il tumore. Ma ormai è troppo tardi e nessuna cura funziona. Ad aprile 2012 i medici le dicono che non ha nessuna speranza di vita e il 13 giugno 2012 sale in cielo. Dice Enrico: “Questa Croce - se la vivi con Cristo - non è brutta come sembra. Se ti fidi di lui, scopri che in questo fuoco non bruci e che nel dolore c’è la pace e nella morte c’è la gioia. Quando vedevo Chiara che stava per morire ero ovviamente molto scosso. Quindi, ho preso coraggio e poche ore prima - era verso le otto del mattino, Chiara è morta a mezzogiorno - gliel’ho chiesto. Le ho detto: “Chiara, amore mio, ma questa Croce è veramente dolce, come dice il Signore?”. Lei mi ha guardato, mi ha sorriso e con un filo di voce mi ha detto: “Sì, Enrico, è molto dolce”. Così, tutta la famiglia, noi, non abbiamo visto morire Chiara serena: l’abbiamo vista morire felice, che è tutta un’altra cosa”. Chiara ha vissuto tutta la vita con questa disposizione interiore ad accogliere il dolore e trasformarlo in gioia. C’è una frase che ripeteva sempre: “siamo nati e non moriremo mai più”. Chiara, infatti, non è morta, ma ha dato la vita nel senso più fecondo del termine.

La vita di Chiara ci parla

Chiunque davanti ad una storia del genere si chiede: “cosa avrei fatto io al suo posto?” Molti di noi risponderebbero che forse non avrebbero avuto il coraggio di reagire così. Di portare una gravidanza fino alla fine e con sofferenza, per generare una vita di appena trenta minuti. Di farlo per una seconda volta. E dopo queste due esperienze, di essere ancora aperti al dono della vita. Di credere che la vita la dona Dio ed è lui a dover decidere se e quando. Di correre il rischio di morire per mettere alla luce una vita che ancora non è nel mondo. Di stare nella gioia sapendo che hai un solo mese da vivere.
Chiara è una ‘santa’, e non si ha paura di essere blasfemi nel dirlo. E davanti alla santità ci sentiamo sempre inadeguati, pensiamo che sia una cosa riservata solo a chi fa cose grandi nella vita. Forse perché i santi, nostri contemporanei, ai quali ci stiamo abituando negli ultimi anni, nella maggior parte dei casi sono ancora troppo lontani da noi, persone che hanno fatto cose grandi per il mondo, per i poveri, per la Chiesa. Oppure donne e uomini di grande umiltà, ai quali è stata donata la grazia di un rapporto mistico con Dio.
Sulla storia di Chiara, nel web, si possono leggere commenti e reazioni di tutti i tipi. Qualcuno si chiedeva: “come possiamo pensare di essere anche noi santi, se Dio non ci chiama a croci così grandi?” “E come possiamo vivere le croci con questa fede e questo coraggio?” Durante un incontro con i giovani del Movimento giovanile Costruire nel 1995, p. Giovanni Santolini OMI diceva che dobbiamo essere “eroi per abitudine”: se cominciamo ad essere fedeli al Vangelo nelle piccole cose, saremo così “abituati” che riusciremo ad esserlo anche nelle cose che sembrano più grandi noi. Anche la beata Chiara Luce Badano, una ragazza di diciotto anni morta di tumore, che aveva vissuto la croce della malattia restando fedele al Vangelo, diceva: “ho capito che se noi fossimo sempre in questa disposizione d’animo, pronti a tutto, quanti segni Dio ci manderebbe!”.
Chiara Corbella fa scandalo, perché è la sua ‘normalità’ a sconvolgere le coscienze. Non si può restare indifferenti davanti alla vita di una donna che potrebbe essere simile a tante altre. Perché in fondo ciò che è successo a Chiara potrebbe accadere a me, alla mia compagna di scuola, alla mia sorella di comunità, alla signora che incontro al supermercato. Chiara è ‘santa’, perché si è allenata ad amare giorno dopo giorno e ha amato fino alla fine. Perché ad ognuno di noi nella vita, presto o tardi, verrà chiesto di amare. Quando mi trovo davanti a una malattia fisica, mia o di un familiare, quando un marito o un amico mi tradisce, quando subisco una violenza, o più semplicemente quando il collega di lavoro mi crea problemi, l’amico mi cerca solo quando ha bisogno, quando c’è da buttare l’immondizia nel momento della giornata in cui sono più stanco. “Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto” (Lc. 16,10), dice Gesù. Ed è l’ordinario, non lo straordinario che ci fa ‘santi’. Chiara si è preparata bene, seguendo la sua regola preferita: piccoli passi possibili. Non conta ciò che non hai fatto nel passato, o quello che pensi tu possa fare in futuro. Conta l’amore che puoi dare adesso.
Siamo in un momento storico in cui la crisi si fa sentire, pesa sulle nostre vite. Ci disperiamo, perché non abbiamo un lavoro, non ci sposiamo, perché non abbiamo una sicurezza economica, non facciamo figli, perché ci tolgono la libertà, ci accontentiamo di una vita mediocre, perché vivere pienamente significa anche farci carico delle croci, che di certo non sono cosa piacevole. Tant’è che il nostro è un mondo che cerca di cancellare il dolore (partendo dall’aborto e dall’eutanasia) in tutte le sue forme. Chiara ha risposto a questa ‘crisi’ con la fedeltà al Vangelo e ci dice quanta responsabilità abbiamo noi cristiani di fronte ad un mondo sempre più spaventato e incerto.
La scelta di Chiara ci ricorda anche una cosa fondamentale: che le donne, nella Chiesa e nel mondo, hanno una missione unica che possono portare avanti solo loro. È la missione della maternità, che Dio ha messo dentro ciascuna donna sin dalla nascita. Chiara ha vissuto fino in fondo la sua vocazione di donna: ha accolto e generato vita. Solo attraverso la realizzazione piena di questa vocazione ciascuna di noi può portare frutto nella Chiesa e nel mondo. Questo significa essere una donna nel senso pieno del termine.
La scelta di Gesù, infine, è una cosa che non basta fare personalmente, è necessario portarla avanti insieme. Non possiamo pensare di riuscirci da soli. Chiara ha avuto la capacità di essere fedele alla sua vocazione, perché ogni suo passo è stato compiuto insieme ad Enrico. Hanno vissuto un matrimonio in cui Gesù era al centro e hanno fatto insieme il cammino verso la santità. Il loro amore vissuto alla presenza di Gesù invita anche noi, tutte le comunità legate al carisma oblato, i fidanzati, le famiglie, a farci riconoscere da quanto ci amiamo. Eugenio de Mazenod l’aveva capito duecento anni fa che da soli non possiamo fare molto. Il mondo ha bisogno di persone che sappiano vivere il Vangelo insieme per realizzare il Regno di Dio proprio ora che manca di più la speranza.


(box)
Non mettere barriere alla Grazia

Racconta Enrico, marito di Chiara, in un’intervista a Radio Vaticana: “Anche attraverso le vite dei nostri figli abbiamo scoperto che la vita, trenta minuti o cent’anni, non c’è molta differenza. Ed è stato sempre meraviglioso scoprire questo amore più grande ogni volta che affrontavamo un problema, un dramma. In realtà, noi nella fede vedevamo che dietro a questo si nascondeva una grazia più grande del Signore. E quindi, ci innamoravamo ogni volta di più di noi e di Gesù. Questo amore non ci aveva mai deluso e quindi, ogni volta, non perdevamo tempo, anche se tutti intorno a noi ci dicevano: “Aspettate, non abbiate fretta di fare un altro figlio”. Invece noi dicevamo: “Ma perché dobbiamo aspettare?”. Quindi, abbiamo vissuto questo amore più forte della morte. La grazia che ci ha dato il Signore è stata di non aver messo barriere alla sua grazia. Abbiamo detto questo ‘sì’, ci siamo aggrappati a lui con tutte le nostre forze, anche perché quello che ci chiedeva era sicuramente più grande di noi. E allora, avendo questa consapevolezza sapevamo che da soli non avremmo potuto farcela, ma con Lui sì”.

(Articolo pubblicato sulla rivista Missioni OMI di marzo 2013) 

Nessun commento:

Posta un commento