La storia di una giovane donna, testimone autentica di vita cristiana. La
regola dei “piccoli passi possibili”
Chiara Corbella aveva ventotto anni, era una donna, una
moglie e una mamma. Era una ragazza della mia età, appartenente a questa
generazione che soffre il problema della disoccupazione, del mettere su
famiglia, della precarietà della vita in tutti i suoi aspetti. Eppure Chiara ha
saputo rispondere a questa società ‘in crisi’ facendo della sua vita un
progetto divino. Le persone che in questi mesi hanno seguito la sua storia e
quella di Enrico Petrillo, suo marito, si sono commosse, arrabbiate,
scandalizzate, convertite. Ma cosa può dire a noi cristiani questa ragazza di
Roma che ha vissuto un’esistenza così felice ed è salita in cielo con una
felicità ancora più grande?
Una storia che
interroga
Chiara nasce il 9 gennaio 1984. Cresce frequentando la
parrocchia e, durante un viaggio a Medjugorje, conosce Enrico, con il quale si
fidanza. Pochi anni e, dopo aver fatto ad Assisi un cammino di formazione per
fidanzati, Chiara ed Enrico si sposano nel settembre 2008. Ha ventiquattro anni
Chiara. Pochissime ragazze ormai si sposano a quell’età, perché non si hanno
certezze, perché ci si vuole godere la vita, perché non si è preparati ad abbracciare
un progetto di vita ‘per sempre’. Lei ed Enrico, invece, si fidano di Dio e
della Provvidenza e si lanciano in questa “volontà di Dio”.
Chiara rimane subito incinta di una bambina, ma già dalle
prime ecografie alla bimba viene diagnosticata un’anencefalia: incompatibile
con la vita, dicono i medici, morirà appena nata. Chiara ed Enrico accolgono la
notizia e si rifiutano di abortire. Vogliono dare alla bambina la possibilità
di vivere quanto Dio vorrà. Chiara porta avanti una gravidanza difficile fino
al giorno in cui nasce Maria Grazia Letizia, che viene battezzata e sale al
cielo dopo trenta minuti. Chiara racconta questa esperienza durante un incontro
ad Assisi, una testimonianza che si può vedere e ascoltare in un video su Youtube, nella quale afferma quanta
gioia loro abbiano sperimentato davanti a questo avvenimento.
Chiara ed Enrico non si rassegnano e pochi mesi dopo arriva un’altra gravidanza. Anche stavolta il bambino è incompatibile con la vita per alcune gravi malformazioni, di nuovo la gravidanza viene portata a termine e nasce Davide, che vive poco più della sorellina.
Chiara ed Enrico non si rassegnano e pochi mesi dopo arriva un’altra gravidanza. Anche stavolta il bambino è incompatibile con la vita per alcune gravi malformazioni, di nuovo la gravidanza viene portata a termine e nasce Davide, che vive poco più della sorellina.
Arriva per Chiara anche la terza gravidanza. Il bambino
è sano e nascerà senza problemi. Al quinto mese, però, a Chiara viene
diagnosticato un tumore alla lingua. Provano ad intervenire, ma non funziona;
c’è bisogno di cure più serie e specifiche. Chiara, però, rifiuta di farsi
curare, perché metterebbe a rischio la vita di suo figlio. Il 30 maggio 2011
nasce Francesco e subito iniziano le cure contro il tumore. Ma ormai è troppo
tardi e nessuna cura funziona. Ad aprile 2012 i medici le dicono che non ha
nessuna speranza di vita e il 13 giugno 2012 sale in cielo. Dice Enrico: “Questa
Croce - se la vivi con Cristo - non è brutta come sembra. Se ti fidi di lui,
scopri che in questo fuoco non bruci e che nel dolore c’è la pace e nella morte
c’è la gioia. Quando vedevo Chiara che stava per morire ero ovviamente molto
scosso. Quindi, ho preso coraggio e poche ore prima - era verso le otto del
mattino, Chiara è morta a mezzogiorno - gliel’ho chiesto. Le ho detto: “Chiara,
amore mio, ma questa Croce è veramente dolce, come dice il Signore?”. Lei mi ha
guardato, mi ha sorriso e con un filo di voce mi ha detto: “Sì, Enrico, è molto
dolce”. Così, tutta la famiglia, noi, non abbiamo visto morire Chiara serena:
l’abbiamo vista morire felice, che è tutta un’altra cosa”. Chiara ha vissuto
tutta la vita con questa disposizione interiore ad accogliere il dolore e
trasformarlo in gioia. C’è una frase che ripeteva sempre: “siamo nati e non
moriremo mai più”. Chiara, infatti, non è morta, ma ha dato la vita nel senso
più fecondo del termine.
La
vita di Chiara ci parla
Chiunque davanti ad una storia del genere si chiede: “cosa
avrei fatto io al suo posto?” Molti di noi risponderebbero che forse non
avrebbero avuto il coraggio di reagire così. Di portare una gravidanza fino
alla fine e con sofferenza, per generare una vita di appena trenta minuti. Di
farlo per una seconda volta. E dopo queste due esperienze, di essere ancora
aperti al dono della vita. Di credere che la vita la dona Dio ed è lui a dover
decidere se e quando. Di correre il rischio di morire per mettere alla luce una
vita che ancora non è nel mondo. Di stare nella gioia sapendo che hai un solo
mese da vivere.
Chiara è una ‘santa’, e non si ha paura di essere
blasfemi nel dirlo. E davanti alla santità ci sentiamo sempre inadeguati,
pensiamo che sia una cosa riservata solo a chi fa cose grandi nella vita. Forse
perché i santi, nostri contemporanei, ai quali ci stiamo abituando negli ultimi
anni, nella maggior parte dei casi sono ancora troppo lontani da noi, persone
che hanno fatto cose grandi per il mondo, per i poveri, per la Chiesa. Oppure
donne e uomini di grande umiltà, ai quali è stata donata la grazia di un
rapporto mistico con Dio.
Sulla storia di Chiara, nel web, si possono leggere commenti e reazioni di tutti i tipi.
Qualcuno si chiedeva: “come possiamo pensare di essere anche noi santi, se Dio
non ci chiama a croci così grandi?” “E come possiamo vivere le croci con questa
fede e questo coraggio?” Durante un incontro con i giovani del Movimento
giovanile Costruire nel 1995, p. Giovanni Santolini OMI diceva che dobbiamo
essere “eroi per abitudine”: se cominciamo ad essere fedeli al Vangelo nelle
piccole cose, saremo così “abituati” che riusciremo ad esserlo anche nelle cose
che sembrano più grandi noi. Anche la beata Chiara Luce Badano, una ragazza di
diciotto anni morta di tumore, che aveva vissuto la croce della malattia
restando fedele al Vangelo, diceva: “ho capito che se noi fossimo sempre in
questa disposizione d’animo, pronti a tutto, quanti segni Dio ci manderebbe!”.
Chiara Corbella fa scandalo, perché è la sua ‘normalità’
a sconvolgere le coscienze. Non si può restare indifferenti davanti alla vita
di una donna che potrebbe essere simile a tante altre. Perché in fondo ciò che
è successo a Chiara potrebbe accadere a me, alla mia compagna di scuola, alla
mia sorella di comunità, alla signora che incontro al supermercato. Chiara è ‘santa’,
perché si è allenata ad amare giorno dopo giorno e ha amato fino alla fine.
Perché ad ognuno di noi nella vita, presto o tardi, verrà chiesto di amare.
Quando mi trovo davanti a una malattia fisica, mia o di un familiare, quando un
marito o un amico mi tradisce, quando subisco una violenza, o più semplicemente
quando il collega di lavoro mi crea problemi, l’amico mi cerca solo quando ha
bisogno, quando c’è da buttare l’immondizia nel momento della giornata in cui
sono più stanco. “Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto” (Lc. 16,10),
dice Gesù. Ed è l’ordinario, non lo straordinario che ci fa ‘santi’. Chiara si
è preparata bene, seguendo la sua regola preferita: piccoli passi possibili.
Non conta ciò che non hai fatto nel passato, o quello che pensi tu possa fare
in futuro. Conta l’amore che puoi dare adesso.
Siamo in un momento storico in cui la crisi si fa
sentire, pesa sulle nostre vite. Ci disperiamo, perché non abbiamo un lavoro,
non ci sposiamo, perché non abbiamo una sicurezza economica, non facciamo figli,
perché ci tolgono la libertà, ci accontentiamo di una vita mediocre, perché
vivere pienamente significa anche farci carico delle croci, che di certo non
sono cosa piacevole. Tant’è che il nostro è un mondo che cerca di cancellare il
dolore (partendo dall’aborto e dall’eutanasia) in tutte le sue forme. Chiara ha
risposto a questa ‘crisi’ con la fedeltà al Vangelo e ci dice quanta
responsabilità abbiamo noi cristiani di fronte ad un mondo sempre più
spaventato e incerto.
La scelta di Chiara ci ricorda anche una cosa
fondamentale: che le donne, nella Chiesa e nel mondo, hanno una missione unica
che possono portare avanti solo loro. È la missione della maternità, che Dio ha
messo dentro ciascuna donna sin dalla nascita. Chiara ha vissuto fino in fondo
la sua vocazione di donna: ha accolto e generato vita. Solo attraverso la
realizzazione piena di questa vocazione ciascuna di noi può portare frutto
nella Chiesa e nel mondo. Questo significa essere una donna nel senso pieno del
termine.
La scelta di Gesù, infine, è una cosa che non basta fare
personalmente, è necessario portarla avanti insieme. Non possiamo pensare di
riuscirci da soli. Chiara ha avuto la capacità di essere fedele alla sua
vocazione, perché ogni suo passo è stato compiuto insieme ad Enrico. Hanno
vissuto un matrimonio in cui Gesù era al centro e hanno fatto insieme il
cammino verso la santità. Il loro amore vissuto alla presenza di Gesù invita
anche noi, tutte le comunità legate al carisma oblato, i fidanzati, le
famiglie, a farci riconoscere da quanto ci amiamo. Eugenio de Mazenod l’aveva
capito duecento anni fa che da soli non possiamo fare molto. Il mondo ha
bisogno di persone che sappiano vivere il Vangelo insieme per realizzare il
Regno di Dio proprio ora che manca di più la speranza.
(box)
Non mettere barriere alla Grazia
Racconta Enrico, marito di Chiara, in un’intervista a
Radio Vaticana: “Anche attraverso le vite dei nostri figli abbiamo scoperto che
la vita, trenta minuti o cent’anni, non c’è molta differenza. Ed è stato sempre
meraviglioso scoprire questo amore più grande ogni volta che affrontavamo un
problema, un dramma. In realtà, noi nella fede vedevamo che dietro a questo si
nascondeva una grazia più grande del Signore. E quindi, ci innamoravamo ogni
volta di più di noi e di Gesù. Questo amore non ci aveva mai deluso e quindi,
ogni volta, non perdevamo tempo, anche se tutti intorno a noi ci dicevano: “Aspettate,
non abbiate fretta di fare un altro figlio”. Invece noi dicevamo: “Ma perché
dobbiamo aspettare?”. Quindi, abbiamo vissuto questo amore più forte della
morte. La grazia che ci ha dato il Signore è stata di non aver messo barriere
alla sua grazia. Abbiamo detto questo ‘sì’, ci siamo aggrappati a lui con tutte
le nostre forze, anche perché quello che ci chiedeva era sicuramente più grande
di noi. E allora, avendo questa consapevolezza sapevamo che da soli non avremmo
potuto farcela, ma con Lui sì”.
(Articolo pubblicato sulla rivista Missioni OMI di marzo 2013)
Nessun commento:
Posta un commento